"SAI CHE IL SIGNORE TI VUOLE BENE?" |
FRA CECILIO MARIA CORTINOVIS |
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In quel momento non seppe rispondere, bloccato da due opposti sentimenti, dalla troppa gioia e dal sentirsi troppo indegno. Ma nel silenzio della sua interiorità aumentava le
pratiche di devozione e lo spirito di preghiera. Capitatagli in mano un’immaginetta di S. Pasquale Baylón, se ne sentì attratto per il candore della sua purezza e del suo amore
all’Eucarestia. Una forte tensione imitativa ebbe il sopravvento. Meditava di notte sulle massime eterne e vi aggiungeva mortificazioni e penitenze. La chiamata si faceva sempre più
chiara in lui, ma non osava ancora manifestarla.
Rimasto in paese fino a ventidue anni, il suo atteggiamento serio, così diverso dai suoi coetanei, non passò inosservato. Tanto che a volte lo mettevano in berlina ed egli,
temperamento forte, dovette fare notevoli sforzi per vincere la fiamma dell’ira. Merito, a suo dire, della frequente comunione, che gli diede energia anche di superare diverse
difficoltà incontrate nello svolgimento di alcuni affari di famiglia, come quando dovette andare una volta con alcuni conoscenti in un paese vicino e venne trascinato in un’osteria e
forzato a bere vino (aveva circa vent’anni) e ad avvezzarsi a discorsi poco puliti, ma egli sfuggì via con energiche gomitate da queste pressioni.
Questo serio impegno di vita, che egli manifestava nel comportamento di ogni giorno, attirò l’attenzione di tutti. Presto i genitori, i fratelli e il parroco lo interrogarono e videro che
nessuno l’avrebbe potuto far desistere dal suo proposito. Fu così che il 21 aprile 1908 il padre lo accompagnò al convento di Bergamo, lasciando la mamma e i fratelli gementi e
piangenti. Mentre sulla porta del convento salutava il padre che gli raccomandava di essere sempre obbediente, ebbe il presentimento che non l’avrebbe mai più rivisto, come
infatti avvenne. Accompagnato poi al convento di Sovere, il 22 aprile raggiunse il noviziato di Lovere. Fu un anno di grandissimo fervore sotto la guida dell’illuminato maestro dei
novizi Gianfrancesco da Cascina Ferrara. La morte del padre, avvenuta in gennaio del 1909, gli aumentò il desiderio di unirsi al Crocifisso. Aveva indossato l’abito cappuccino col
capperone il 29 luglio 1908 con immenso giubilo e trascorse l’anno di prova in lieta penitenza tra preghiera, lavoro, digiuni, astinenze, flagellazioni e cilizi e soffrendo il freddo una
volta quasi fino a morirne. |
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Emise la professione semplice il 2 agosto 1909, un giorno che, a suo dire, fu luminosissimo. Il 10 agosto, concluso l’anno di noviziato passò al convento di Albino fino al 17 febbraio
1910, quando venne destinato al convento di Cremona, ove rimase circa tre mesi. Infine approdò definitivamente al convento di Milano Monforte il 29 aprile 1910. In questo suo
impatto con la realtà feriale della vita religiosa svolse diversi uffici, come di supplente portinaio, sacrista, refettoriere, aiuto infermiere, quasi in un apprendimento di ruoli diversi di
servizio in totale obbedienza caritativa, pronto a sacrificarsi imparando da tutti e a tutti obbedendo, anche quando non riusciva ad accontentare tutti e allora trovava rifugio e
conforto nella sua abituale giaculatoria: “Dio sia benedetto”.
A Milano ricoprì l’ufficio di aiuto sacrista e comunitiere e anche di aiuto portinaio, infermiere e foresterario, e poi verso la metà del novembre 1914 capo sacrista fino al 1921. In
questo compito che lo tratteneva quasi tutto il giorno in chiesa, approfondì le sue aspirazioni e contemplazioni eucaristiche. L’orario della sua giornata faticosissima iniziava verso le
ore tre o quattro del mattino e nella chiesa deserta pregava le sue devozioni, particolarmente la Via Crucis meditava col cuore. Serviva più messe che poteva, preparando i diversi
altari con devozione e pulizia. Svolgeva altri servizi nel convento fino a sera. Dopo cena passava molte ore in chiesa a pregare e quando i frati venivano in coro per il Mattutino di
mezzanotte, egli era ancora presente e non si ritirava per un breve sonno se non verso l’una e mezza. Un ritmo che restò quasi identico per tutta la vita.
Proprio in questo periodo, nel 1914 Fra Cecilio si ammalò di meningite che lo portò in fin di vita. Creduto ormai morto, l’intercessione del Beato Innocenzo da Berzo, invocata dal
padre guardiano Girolamo da Lomazzo, gli ridiede la salute, ma non dopo un’illuminazione mistica del giudizio misericordioso di Dio, che sperimentò il 18 aprile 1914 nel momento
più acuto della malattia, quando stava per rendere la sua anima a Dio. Questa luminosa esperienza lascerà un’orma indelebile nel suo spirito.
Ripreso il suo lavoro di sacrista, nel luglio 1916 venne chiamato sotto le armi e destinato al V Reggimento Alpini a Tirano nella terza compagnia complementare di rinforzo al
battaglione Stelvio sul Monte Nero. Smesso l’abito religioso con grande dispiacere, soffrì molto nella disciplina militare, soprattutto nelle lunghe corse e negli esercizi di strisciare per
terra. Il suo cuore non reggeva a queste esercitazioni e, visitato dal medico, verso la fine di novembre 1916 venne congedato e il 14 gennaio 1918 riformato. Un’esperienza diffcile, a
contatto con la realtà dura della vita militare, lo rese più tenace nel suo spirito di fede, tanto che la serenità con cui svolgeva i suoi compiti diventava per i soldati e anche per i capi
militari un efficace monito ed esempio. Questa pausa della prima guerra mondiale gli fece differire la professione solenne al 2 febbraio 1918, nella quale rinnovò tutto il suo amore e
desiderio di trasformarsi in Cristo. Il 16 settembre 1921 divenne portinaio del convento di Monforte e questuante per i poveri. Quante volte, accogliendo o accompagnando i confratelli missionari che venivano o
andavano in Brasile o in Africa, sognava di essere uno di loro. Avrebbe voluto passare la vita assistendo p. Daniele da Samarate, missionario fra i lebbrosi in Tucunduba nel Brasile,
che moriva consumato dal male il 19 maggio 1924 e di cui è introdotta la causa di beatificazione. Anche in quella circostanza volle rifare la domanda ai superiori, perché gli
permettessero di servire i lebbrosi lasciati da p. Daniele.
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fra Cecilio in Questura a Milano nel 1938
Cecilio con i confratelli nel convento di Viale Piave |
Sintetizzare l’attività svolta da Fra Cecilio per lunghissimi anni alla porta del convento di Milano è diffcile. Molti fatti sfuggono. Ma alcuni sono come punti culminanti della sua esperienza spirituale e della sua attività nell’obbedienza. Il primo episodio avviene nell’anima di Fra Cecilio e nessuno l’avrebbe mai conosciuto se i suoi direttori spirituali non l’avessero obbligato a raccontarlo. All’alba del 5 luglio 1922, raccolto nella sua umile cella, venne avvolto da una luce spirituale che gli mostrò in un attimo il panorama delle coscienze umane di fronte al mistero della Redenzione. Questa visione intellettuale lo accompagnerà per tutta la vita e lo renderà continuamente aperto a incontrare il mistero di Dio nell’altra vita verso la quale teneva desto e gioioso il suo desiderio. Un secondo episodio riguarda l’erezione del grande monumento a S. Francesco in Piazza Risorgimento, avvenuta in occasione del centenario della morte del Poverello, celebrato solennemente in tutta Italia nel 1926-1927. Egli vi contribuì in modo efficace questuando per la città, di casa in casa, di portineria in portineria, tra rifiuti e accoglienza, il denaro necessario. Lo scultore Domenico Trentacoste lo volle nel suo studio a Firenze per tre giorni e a lui si ispirò nel plasmare il volto della grande statua di bronzo. Il monumento venne inaugurato dal card. Eugenio Tosi il 28 ottobre 1927. Il terzo episodio, che non è episodio, ma una serie di iniziative di eroica carità, si riferisce al periodo terribile della seconda guerra mondiale, quando Milano venne bombardata ed egli rimase fermo al suo posto, nonostante i pericoli, e si sentì una sola cosa con la gente, soccorrendo i perseguitati politici e gli ebrei e i poveri divenuti una moltitudine. Infatti il periodo post-bellico, così drammatico per il popolo italiano, vide la crescita a dismisura dei poveri che in lunga processione venivano alla porta del convento per poter mangiare almeno una buona minestra calda che Fra Cecilio preparava per loro ogni giorno. Ma spesso quei poveri, esposti alle inclemenze delle stagioni mentre attendevano in fila il loro turno, creavano tanto disagio e compassione al suo cuore. Un giorno, che pioveva a dirotto, decise di perorare la loro causa davanti al Tabernacolo: “Signore, quando hai moltiplicato il pane per cinquemila persone, le hai fatte sedere a gruppi sul prato verde, segno che non pioveva. Guarda qui invece come si bagnano questi tuoi poveri!”. La risposta, inaspettata e sorprendente, venne nove mesi dopo, quando un insigne benefattore si sentì ispirato a costruire per loro un ambiente di ristoro, ossia l’Opera S. Francesco che sorse nell’ultimo pezzo di orto del convento e in nove mesi poteva già essere inaugurata il 20 dicembre 1959 dal card. Giovanni Battista Montini, che poi divenne Paolo VI. Dal 1959 al 1979 l’Opera S. Francesco è stata il secondo tabernacolo per fra Cecilio. Dopo aver incontrato Cristo nell’Eucarestia, qui lo serviva nei bisogni spirituali, morali e materiali delle sue membra. |
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Nel 1969 e 1973 gli venne assegnato rispettivamente dal Comune e dalla Provincia Lombarda una medaglia d’argento e un’altra d’oro. La stampa ne fece ampia propaganda soffermandosi con articoli freschi sulla personalità del frate cappuccino. P. Lino Garavaglia da Mesero, ora vescovo emerito di Cesena, su un giornale locale così descriveva la giornata standard di Fra Cecilio che si ripeteva ormai da sessant’anni: “La sua giornata, da sessant’anni, è fatta di poche, concrete, terribili cose. Alzata quando è ancora notte (quattro, quattro e trenta del mattino), preghiera; alle otto al servizio dei poveri. E costretto a pranzare sempre da solo, perché all’ora in cui pranzano i confratelli, pranzano anche i poveri e lui deve servirli. Quando risale nella sua cella sono le quattordici e trenta. Alle quindici scende nuovamente per la preghiera. Poi va in città in cerca di aiuti. Dopo cena (ormai sono le ventuno) torna al suo posto di lavoro per preparare le verdure e ogni altra cosa per l’indomani. Così da sessant’anni: quando ne aveva 24 ed ora che ne ha 84”. A partire dall’agosto del 1979 la malferma salute, con dolori cardiaci e frequenti malattie delle vie respiratorie costrinsero i superiori a dispensarlo dal pesante servizio dell’Opera dei poveri ed egli lo fece con spirito di obbedienza, ma non cessò di beneficarli con il pane spirituale della sua preghiera e della sua parola, preghiera e parola ricercate dalla gente che accorreva ad incontrarlo per sentire le sue “parole così straordinariamente semplici - scrive un giornalista - da lasciarti incantato. Sapeva parlare di Dio, della vita, della morte, dell’amore, della felicità. Per chi lo ascoltava era un ritorno all’infanzia, un bagno di innocenza; e di fronte a quegli occhi azzurro chiaro, dallo sguardo candido come quello di un bambino, di fronte a quel sorriso così dolce, si sentiva con una punta di malinconia, quanto fosse faticoso non avere le sue certezze”. Egli, sempre accanto alla sua Madonnina, così semplicemente e schiettamente diffondeva pace e consolazione e si narrano anche grazie e miracoli. | |
Gli ultimi tre anni trascorsero in un andirivieni tra Milano e l’infermeria dei cappuccini di Bergamo, finché vi rimase definitivamente, perché la sua carne si era ormai eccessivamente indebolita, mentre lo spirito era sempre più pronto. Molte persone accorrevano a gustare ancora gli ultimi aneliti della sua spiritualità. Finché venne la sua ora: morì pregando e sorridendo il 10 aprile 1984 alle ore 21,15. Dopo i funerali nel convento di Bergamo, la salma venne portata a Milano e accolta da moltissima gente. Celebrati i funerali solenni nel suo convento di Monforte, essa venne tumulata nel cimitero maggiore di Musocco nel campo 57. Cinque anni dopo il Comune e il card. Carlo Maria Martini permettevano che la salma venisse trasportata e sepolta nella chiesa del Sacro Cuore in Viale Piave 2. La tumulazione avvenne il 31 gennaio 1989, fra una marea di gente gioiosa e silenziosa. Fra Cecilio è così ritornato nella sua chiesa, accanto alla sua Opera, amato e venerato, dov egli ha amato senza sosta e misura il Suo dolcissimo Sposo eucaristico e i suoi poveri. La fama di santità ha spinto l’allora card. di Milano Carlo Maria Martini a iniziare il processo informativo il 27 settembre 1993, conclusosi solennemente il 10 aprile 1995. Il decreto di validità venne messo il 22 marzo 1996. E la causa prosegue. Questa in breve è la vicenda biografica di Fra Cecilio come è stata raccontata in vari opuscoli, libri e anche dissertazioni universitarie. Ma chi vorrà costruire una biografia penetrante di questo singolare personaggio, visto nella luce della sua stessa fede ed esperienza, non potrà fare a meno di rileggere il suo copioso diario, la sua numerosa corrispondenza e le sue note spirituali. Fa impressione vedere come un uomo, che sapeva appena leggere e scrivere, che ha sempre lavorato, senza soste, pronto ad ogni servizio nell’obbedienza, abbia potuto scrivere così abbondantemente, con un suo inconfondibile stile, con una linearità di concetti e ricchezza di toni spirituali. | |
TESTIMONIANZA SUGLI ULTIMI GIORNI DI FRA CECILIO CORTINOVIS
FREI AQUILINO, SUO INFERMIERE |